venerdì 26 marzo 2010

Donna di Porto Pim. Una storia

Tutte le sere canto, perché mi pagano per questo, ma le canzoni che hai ascoltato erano pesinhos e sapateiras per i turisti di passaggio e per quegli americani che ridono là in fondo e che fra un po' se ne andranno barcollando. Le mie canzoni vere sono solo quattro chamaritas, perché il mio repertorio è poco, e poi io sono quasi vecchio, e poi fumo troppo, e la mia voce è roca. Mi tocca vestire questo balandrau azzorriano che si usava una volta, perché agli americani piace il pittoresco, poi tornano nel Texas e raccontano che sono stati in una bettola di un'isola sperduta dove c'era un vecchio vestito con un mantello arcaico che cantava il folclore della sua gente. Vogliono la «viola de arame», che dà questo suono di fiera malinconica, e io gli canto modinhas sdolcinate dove la rima è sempre la stessa, ma tanto loro non capiscono e come vedi bevono gin tonico.
Ma tu, invece, cosa cerchi, che tutte le sere sei qui? Tu sei curioso e cerchi qualcos'altro, perché è la seconda volta che mi inviti a bere, ordini vino di cheiro come se tu fossi dei nostri, sei straniero e fai finta di parlare come noi, ma bevi poco e poi stai zitto e aspetti che parli io. Hai detto che sei scrittore, e forse il tuo mestiere ha qualcosa a che vedere col mio. Tutti i libri sono stupidi, c'è sempre poco di vero, eppure ne ho letti tanti negli ultimi trent'anni, non avevo altro da fare, ne ho letti molti anche italiani, naturalmente tutti in traduzione, quello che mi è piaciuto di più si chiamava Canaviais no vento, di una certa Deledda, lo conosci? E poi tu sei giovane e ti piacciono le donne, ho visto come guardavi quella donna molto bella dal collo lungo, l'hai guardata tutta la sera, non so se stai con lei, anche lei ti guardava e forse ti sembrerà strano ma tutto questo mi ha risvegliato qualcosa, dev'essere perché ho bevuto troppo. Ho sempre scelto il troppo, nella vita, e questa è una perdizione, ma non ci puoi far niente se sei nato così.
Davanti alla nostra casa c'era un'atafona, in quest'isola si chiamava così, era una specie di noria che girava in tondo, ora non esistono più, ti parlo di tanti anni fa, tu non eri ancora nato. SE ci penso sento ancora il cigolio, è uno dei rumori della mia infanzia che mi è restato nella memoria, mia madre mi mandava con la brocca a prendere l'acqua e io per alleviare la fatica accompagnavo il movimento con una ninna nanna, e a volte mi addormentavo davvero. Oltre la noria c'era un muro basso imbiancato a calce e poi lo strapiombo e in fondo il mare.
Eravamo tre fratelli e io ero il più giovane. Mio padre era un uomo lento, misurato nei gesti e nelle parole, con gli occhi così chiari che parevano d'acqua, la sua barca si chiamava «Madrugada», che era anche il nome da casa di mia madre. Mio padre era baleniere, come lo era stato suo padre, ma in una certa epoca dell'anno, quando le balene non passano, praticava la pesca alle murene, e noi andavamo con lui, e anche nostra madre. Ora non si usa più così, ma quando io ero bambino si usava un rito che faceva parte della pesca. Le murene si pescano la sera, quando cresce la luna, e per chiamarle si usava una canzone che non aveva parole: era un canto, una melodia prima bassa e languida e poi acuta, non ho più sentito un canto un canto con tanta pena, sembrava che venisse dal fondo del mare o da anime perdute nella notte, era un canto antico come le nostre isole, ora non lo conosce più nessuno, si è perduto, e forse è meglio così perchè aveva con sé una maledizione o un destino, come una magia. Mio padre usciva con la barca, era notte, muoveva i remi piano, a perpendicolo, per non fare rumore, e noi altri, i miei fratelli e mia madre, ci sedevamo sulla falesia e cominciavamo il canto. C'erano volte che gli altri tacevano e volevano che chiamassi io, perchè dicevano che la mia voce era melodiosa come nessun'altra e che le murene non resistevano. Non credo che la mia voce fosse migliore di quella degli altri: volevano che cantassi io solo perché ero il più giovane e si diceva che le murene amano le voci chiare. Forse era una superstizione senza fondamento, ma questo non importa.
Poi noi crescemmo e mia madre morì. Mio padre si fece più taciturno e a volte, la notte, stava seduto sul muro della falesia e guardava il mare.
Ormai uscivamo solo per le balene, noi tre eravamo grandi e forti, e mio padre ci affidò arpioni e lance, come la sua età esigeva. Poi un giorno i miei fratelli ci lasciarono. Quello di mezzo partì per l'America, lo disse solo il giorno della partenza, io andai al porto a salutarlo, mio padre non venne. L'altro andò a fare il camionista in continente, era un ragazzo ridanciano che aveva sempre amato il rumore dei motori, quando la guardia repubblicana venne a comunicarci l'incidente io ero solo in casa e a mio padre lo raccontai a cena.
Continuammo noi due ad andare a balene. Ora era più difficile, bisognava affidarsi a braccianti di giornata, perché in meno di cinque non si può uscire, e mio padre avrebbe voluto che mi sposassi, perché una casa senza una donna non è una vera casa.
Ma io avevo venticinque anni e mi piaceva giocare all'amore, tutte le domeniche scendevo al porto e cambiavo innamorata, in Europa era tempo di guerra e nelle Azzorre la gente andava e veniva, ogni giorno una nave attraccava qui o altrove, e a Porto Pim si parlavano tutte le lingue.
La incontrai una domenica sul porto. Vestiva di bianco, aveva le spalle nude e portava un cappello di trina. Sembrava scesa da un quadro e non da una di quelle navi cariche di persone che fuggivano nelle Americhe. La guardai a lungo e anche lei mi guardò.
È strano come l'amore può entrare dentro di noi.
In me entrò col notare due piccole rughe accennate che aveva intorno agli occhi e pensai così: non è più tanto giovane. Pensai così perché forse a quel ragazzo che ero una donna matura sembrava più vecchia della sua età reale. Che aveva poco più di trenta anni lo seppi solo molto più tardi, quando sapere la sua età non serviva più a niente. Le detti il buon giorno e le chiesi se potevo esserle utile. Mi indicò la valigia che stava ai suoi piedi. Portala al Bote, mi disse nella mia lingua. Il Bote non è un luogo per signore, dissi io. Io non sono una signora, rispose, sono la nuova padrona.
La domenica seguente scesi di nuovo in città.
Il Bote a quei tempi era un locale strano, non era esattamente una locanda per pescatori e io vi ero entrato una sola volta. Sapevo che c'erano due separé sul retro dove dicevano che si giocava di denaro, e la stanza del bar aveva una volta bassa, con una specchiera arabescata e i tavolini di legno di fico. I clienti erano tutti stranieri, pareva che fossero tutti in vacanza, in realtà passavano la giornata a spiarsi, ciascuno fingendo di essere di un paese che non era il suo, e negli intervalli giocavano a carte.
Faial, in quegli anni, era un luogo incredibile. Dietro al bancone c'era un canadese basso, con le basette a punta, si chiamava Denis e parlava il portoghese come quelli di Cabo Verde, lo conoscevo perchè il sabato veniva al porto a comprare il pesce, al Bote si poteva cenare, la domenica sera. Fu lui che poi mi insegnò l'inglese.
Vorrei parlare con la padrona, dissi. La signora viene solo dopo le otto, rispose con superiorità. Mi sedetti a un tavolo e ordinai la cena. Verso le nove lei entrò, c'erano altri avventori, mi vide e mi fece un saluto distratto, e poi si sedette a un angolo dove c'era un vecchiosignore coi baffi bianchi. Solo allora sentii quanto fosse bella, di una bellezza che mi faceva bruciare le tempie, era questo che mi aveva portato lì, ma fino a quel momento non ero riuscito a capirlo con esattezza. E in quel momento ciò che capivo mi si ordinò dentro con chiarezza e mi dette quasi una vertigine. Passai la sera a fissarla, coi pugni appoggiati alle tempie, e quando uscì la seguii a distanza. Lei camminava leggera, senza voltarsi, come chi non si preoccupa di essere seguito, attaversò la porta della muraglia di Porto Pim e cominciò a discendere la baia. Dall'altra parte del golfo, dove termina il promontorio, isolata fra le rocce, fra un canneto e una palma, c'è una casa di pietra. Forse l'hai già notata, ora è una casa disabitata e le finestre sono cadenti, ha qualcosa di sinistro, un giorno o l'altro crollerà il tetto, se non è già crollato. Lei abitava là, ma allora era una casa bianca con riquadri azzurri su porte e finestre. Entrò e chiuse la porta e la luce si spense. Io mi sedetti su uno scoglio e aspettai. A metà della notte si accese una finestra, lei si affacciò e io la guardai. Le notti sono silenziose a Porto Pim, basta sussurrare nel buio per sentirsi a distanza. Lasciami entrare, la supplicai. Lei chiuse la persiana e spense la luce. La luna stava sorgendo, con un velo rosso di luna d'estate. Sentivo uno struggimento, l'acqua sciabordava attorno a me, tutto era così intenso e così irraggiungibile, emi ricordai di quando ero bambino e la notte chiamavo le murene dalla falesia: e allora mi dette una fantasia, non seppi trattenermi, e cominciai a cantare quel canto. Lo cantai piano piano, come un lamento o una supplica, con una mano all'orecchio per guidare la voce. Poco dopo la porta si aprì e io entrai nel buio della casa e mi trovai fra le sue braccia. Mi chiamo Yeborath, disse soltanto.
Tu lo sai cos'è il tradimento? Il tradimento, quello vero, è quando senti vergogna e vorresti essere un altro. Io avrei voluto essere un altro quando andai a salutare mio padre e i suoi occhi mi seguivano mentre fasciavo l'arpione con la tela cerata e lo appendevo a un chiodo di cucina e mi mettevo a tracolla la viola che mi aveva regalato per i miei vent'anni. Ho deciso di cambiare mestiere, dissi rapidamente, vado a cantare in un locale di Porto Pim, verrò a trovarti il sabato. E invece quel sabato non andai, e nemmeno il sabto seguente, e mentendo a me stesso mi dicevo che sarei andato il sabato venturo. E così venne l'autunno, e passò l'inverno, e io cantavo. Facevo anche altri piccoli lavori, perché a volte certi avventori bevevano troppo e per sorreggerli o cacciarli era necessario un braccio robusto che Denis non possedeva.
E poi ascoltavo quello che dicevano gli avventori che fingevano di stare in vacanza, è facile ascoltare le confidenze degli altri quando si è cantante di taverna, e come vedi è anche facile farne. Lei mi aspettava nella casa di Porto Pim e ormai non dovevo più bussare. Io le chiedevo: chi sei, da dove vieni?, perché non andiamo via da questi individui assurdi che fanno finta di giocare a carte, voglio stare con te per sempre. Lei rideva e mi lasciava intendere la ragione di quella sua vita, e mi diceva: aspetta ancora un po' e ce ne andremo insieme, devi fidarti di me, di più non posso dirti. Poi si metteva nuda alla finestra e guardava la luna e mi diceva: canta il tuo richiamo, ma sottovoce. E mentre io cantavo mi chiedeva che la amassi, e io la prendevo in piedi, appoggiata al davanzale, mentre lei guardava la notte come se aspettasse qualcosa.
Successe il dieci di agosto. Per San Lorenzo il cielo è pieno di stelle cadenti, ne contai tredici tornando a casa. Trovai la porta chiusa, e io bussai. Poi bussai di nuovo, con più forza, perchè la luce era accesa. Lei mi aprì e restò sulla porta, ma io la scostai con un braccio. Parto domani, disse, la persona che aspettavo è tornata. Sorrideva come se mi ringraziasse,e chissà perchè pensai che pensava al mio canto. In fondo alla stanza una figura si mosse. Era un uomo anziano e si stava vestendo. Che cosa vuole?, le chiese in quella lingua che io ora capivo. È ubriaco, disse lei, una volta faceva il baleniere ma ha lasciato l'arpione per la viola, durante la tua ssenza mi ha fatto da servo. Mandalo via, disse lui senza guardarmi.
C'era un riflesso chiaro sulla baia di Porto Pim. Percorsi il golfo come se fosse un sogno, quando ci si trova subito all'altra estremità del paesaggio. Non pensai a niente, perché non volevo pensare. La casa di mio padre era spenta, perché lui si coricava presto. Ma non dormiva, come spesso succede ai vecchi che giacciono immobili nel buio come se fosse una forma di sonno. Entrai senza accendere il lume, ma lui mi sentì. Sei tornato, mormorò. Io andai alla parete di fondo e staccai il mio arpione. Mi muovevo alla luce della luna. Non si va alle balene a quest'ora della notte, disse lui dal suo giaciglio. È una murena, dissi io. Non so se capì cosa volevo dire, ma non replicò e non si mosse. Mi parve che mi facesse un segno di saluto con la mano, ma forse fu la mia immaginazione o un gioco d'ombra nella penombra. Non l'ho più rivisto, morì molto prima che scontassi la mia pena. Anche mio fratello non l'ho più rivisto. L'anno scorso mi è arrivata una sua fotografia, è un uomo grasso coi capelli bianchi circondato da un gruppo di sconosciuti che devono essere i figli e le nuore, sono seduti sulla veranda di una casa di legno e i colori sono esagerati come nelle cartoline. MI diceva che se volevo andare da lui, là c'è lavoro per tutti e la vita è facile. Mi è parso quasi buffo. Cosa vuol dire una vita facile, quando la vita è già stata?
E se tu ti trattieni ancora un po' e la voce non si incrina, stasera ti canterò la melodia che segnò il destino di questa mia vita. Non l'ho più cantata da trent'anni e può darsi che la voce non regga. Non so perché lo faccio, la regalo a quella donna dal collo lungo e alla forza che ha un viso di affiorare in un altro, e questo forse mi ha toccato una corda.
E a te, italiano, che vieni qui tutte le sere e si vede che sei avido di storie vere per farne carta, ti regalo questa storia che hai sentito. Puoi anche mettere il nome di chi te l'ha raccontata, ma non quello con cui mi conoscono in questa bettola, che è un nome per i turisti di passaggio. Scrivi che questa è la vera storia di Lucas Eduino, che uccise con l'arpione la donna che aveva creduto sua, a Porto Pim.
Ah, su una sola cosa lei non mi aveva mentito, lo scopersi al processo. Si chiamava davvero Yeborath. Se questo può contare qualcosa.

Antonio Tabucchi

mercoledì 24 marzo 2010

Anisakis e le altre

La voglia di sedersi a un banco di scuola era sinceramente poca, ma quando ci si decide a mettere in piedi la tasquinha non si può farla tanto facile, bisogna prepararsi.
E allora ci si iscrive al corso di somministrazione alimenti e bevande perchè altrimenti, se uno non ha maturato due anni di esperienza nel settore, un locale non lo apre.
Già dal nome questo corso faceva presagire il peggio. Somministrare sa di una cosa che si fa coi guanti in lattice, il camice bianco e la mascherina. E infatti se uno si attiene alle regole è proprio così. La cucina di un ristorante, come quella della piola più infima, dev'essere un luogo da cui batteri e virus devono tenersi molto alla larga.
E allora alla quinta lezione d'igiene – ovvero, quella dopo le entusiasmanti prime quattro lezioni tenute dallo chef – ecco che arriva l'ispettore dell'Asl. Ed ecco che la musica cambia.
Non che lo chef l'avesse fatta facile, ma non è il suo mestiere andare in giro per ristoranti a fare ispezioni, prelevare campioni del tuo arrosto da analizzare, fare un tampone all'affettatrice per verificare la carica batterica. L'ispettore, un signore simpatico e affabile, arriva invece con sottobraccio un faldone che, nel corso della lezione, scopriremo zeppo di foto splatter.
Prima un giro di casi drammatici: il ristoratore che, pensando fosse un blocco unico, non aveva mai smontato e pulito all'interno l'affettatrice; oppure la barista con un taglio sul dito (e un cerotto lurido sopra) con cui maneggiava tranquilla il prosciutto e i panini.
Poi un giro di articoli di giornale: 20 tipi diversi di urine trovati dall'analisi di un aperitivo nel centro di Milano (a Torino, anche se ci crediamo migliori e siamo di meno, sarà mica tanto diverso...).
Infine una lunga carrellata di parassiti dai nomi buffi, un po' vezzosi: la trichinella della carne ovina, la popolarissima tenia, e poi lei... la più pericolosa, la diva, quella che ti buca l'intestino: la larva di anisakis, del pesce crudo (ma se andiamo a mangiare il sushi sono mica pazzi che ce la fanno trovare, dai).
Durante la lezione dell'ispettore è calato in classe un silenzio di tomba. Gli occhi di tutti, chi più chi meno, pieni di terrore. Sarà stato un po' lo schifo (la carrellata di foto) e un po' l'idea di trovare l'ispettore, un giorno, davanti alla porta del tuo ristorante.
Ogni sera, dopo il corso, una nuova fonte di stress si aggiunge a tutte le altre, depositate nelle lezioni precedenti. Il tutto si ripercuote sulla vita quotidiana, soprattutto ai fornelli: nemici come la contaminazione crociata non possono avere la meglio su di me, perchè ora so come combatterli! Tempo, temperatura e umidità; tempo, temperatura e umidità; tempo, temperatura e umidità. ...Com'è che non vi riproducete più tanto volentieri, voi lì dentro, eeehh!!!???? Fa freddo? Avete troppo caldo? Non ne avete più la forza? Uh, mi spiace... Looooosersss!!!*
E via discorrendo.
Non resta che augurarsi che i miei nervi reggano tutto questo e arrivino, sani, forti e consapevoli, fino all'apertura della tasquinha e oltre.

* Discorso ai batteri

sabato 20 marzo 2010

La banda biscotti

La banda biscotti esiste davvero e si trova a Verbania. Per saperne di più c'è il sito: www.bandabiscotti.it
I biscotti (sì, la banda produce chiaramente biscotti) sono buonissimi, ma hanno ancora poca distribuzione. Quando aprirò la tasquinha sarò la loro prima distributrice torinese (ma ben venga se qualcuno arriverà prima di me!). Oppure possiamo anche fare una gita sul Lago Maggiore e andarceli a comprare!!! Domani è primavera! A quando la gita???